giovedì 4 giugno 2009

Mi chiamano strada


MI chiamano strada,

mi chiamano strada piena di rumore e di sporcizia,

mi chiamano strada senza luci e desolata,

mi chiamano strada, stretta fra le case e coi portoni scrostati,

mi chiamano strada,dove tutti sono uguali nel buio della notte,

mi chiamano strada, dove dietro l'angolo la morte è per te e per me,

mi chiamano strada ,dove tira il vento caldo che impolvera le vesti,

mi chiamano strada,immobile che si specchia negli occhi di chi passa,

mi chiamano strada di disoccupati e miserabili,

mi chiamano strada di straccioni di pezzenti,della feccia della città,

mi chiamano strada di sguattere,puttane,parrucconi,

mi chiamano strada di trafficanti,barattieri,spacciatori,

mi chiamano strada dei clandestini,dei disperati dei senza nome,

mi chiamano strada,

strada che uccide,

strada che nutre,

strada che piange
,
strada che ride,

strada che consola gli occhi di chi la sà ascoltare.

martedì 2 giugno 2009

Al Ritorno da una cena





Sono appena rientrato a casa,ho fumato l'ultima sigaretta sul terrazzo (come al solito),ho salutato Giovanni che parte per Stoccolma e ho cominciato a ripensare insistentemente a scrivere qualcosa ,almeno una traccia dei tanti pensieri e delle tante parole scambiate stasera a cena con i "soliti"partigiani.Si i soliti vecchi partigiani di Spezia che ormai abbiamo sentito parlare così tante volte di questa costituzione,di questa resistenza,di quest'antifascismo che non ci accorgiamo che non abbiamo sentito,anzi ASCOLTATO mai abbastanza.

La cena a Solaro per la festa della Repubblica è il solito allegro gozzoviglio di pesce vino e bandiere rosse e puntualmente arriva la solita richiesta di silenzio per il Gancia,"ch' i gà quarcò da dirve fanti!"Le posate tacciono e giovani e vecchi,bambini mamme e nonne,si smette tutti di chiaccherare ,di mangiare e si ascolta quell'omone dagli occhi azzurri,con la voce roca,ferma,fiera,che minaccia chi si azzarderà a non andare a votare per queste elezioni europee ormai imminenti."Mi dicon che parlo sempre della costituzione,che son noioso!" tuona il Gancia dall'alto dei suoi 82 anni,"Ma me anae sui monti per doi ani cò no Sten in mano a ne me pae noioso!"..(applausi)..
Continua il Gancia a parlare di quel mondo che lui dice di vedere ogni giorno negli occhi dei  giovani,dei giovani "liberati",come li chiama lui,quel mondo che in reltà sta sparendo lentamente attorno ogni giorno che passa per lasciare spazio ad un altro "mondo".
Quel mondo che non ha ancora rispetto di chi ha lavato col sangue la liberazione e tenta di equiparare con una legge i repubblichini fascisti con chi gli ha combattuti.
Quel mondo che riscrive e che dimentica la storia,e soprattutto chi l'ha fatta.
Quel mondo di giovani che ignorano perchè la scuola si chiusa il 25 aprile,il 2 giugno e non sono qui a festeggiare con lui.

Il mondo di cui parla il Gancia,il Comandante Diavolo,di cui parlava Varese,di cui parlano e hanno parlao quasi tutti i nonni liguri e italiani in generale sta lentamente scomparendo.
Quel mondo che si voleva costruire sul rispetto dell'altro,sulla tolleranza sulla libertà e l'uguaglianza è stato schiacciato dal paese delle ronde xenofobe ,dalle continue morti degli operai, dai Presidenti mafiosi e puttanieri.

Finisce la cena e ci ritroviamo a parlare coi "veci" al tavolo.Bevono ,fumano,cantano,festeggiano insomma."Ai miei tempi (ci dice Ivan)la  moussa n'era mica così facile da catae!"(risate generali)..Non andavamo a ballare noi ,e la resistenza non l'abbiam fatta per raccontarvi del freddo che ci avevamo in montagna!l'abbiam fatta fanti per farvi anae a balae e andarci anche noi!per aver un paese dove esser felici e tutti uguali!"

Cantiamo con loro e tutti si uniscono ai cori che riecheggiano nelle verdi colline di uliveti che guardano il Golfo.


Il Gancia canta per chi non c'è più ed è morto accanto a lui,
Fiore per i suoi 20 anni che nessuno gli renderà mai indietro,
Coclite per la grande idea di uomo che aveva il socialismo e tutti gli dicon che adesso è morta,


E io canto per i miei figli se ne avrò,
che qualsiasi cosa leggeranno gli verrà raccontata o studieranno sui libri,non conosceranno mai gli uomini che sono morti  per loro sui miei monti,
non potranno mai dirgli "Grazie" guardandogli negli occhi,nè ascoltare le loro strane storie nelle sere di giugno,quando l'aria è calda
 ma il vento che tira dal mare arriva a sprazzi apungere la pelle,
a ricordarci  DI RICORDARE.
buonanotte.





imbattutomi nella discussione  fra i miei due amici filosofi ho deciso repentinamente di abbandonare lo studio ..ogni motivo è valido...Abrazos!


NON RESTARE NELLE TUE STANZE,FATTI AMICO DEI RAGAZZI DI STRADA.

c'è chi si rammarica,chi protesta,chi fa della matematica,
c'è chi strilla e c'è chi scrive,
chi non ha un cazzo nella pancia,e se ne fotte della sibilla che gli vuol spiegar come si vive.

Amici siate indulgenti, perdonatemi.

Lasciatemi far della polemica comunque,
qualunque sia il discorso,
tralasciando la metrica e sferrando qualche morso
sulle vostre candide mani lunghe.

Dalla storia scrive Armando ,
v'è da imparar per non cader sempre in un lutto,
c'è da spartir la futura gloria ma non tutti posson far Benazir Bhutto,
eh si!..ci vuol la pancia piena per leggere e studiare,
non vi è forse compito migliore per chi possiede Ciò di 
lottare per donarne un pò?

Nel mondo dei McDonald,del DIO-DANARO,
PRETENDO CHE L'IMPEGNO DI UN FILOSOFO SIA CHIARO!

E non mi fraitendete amici,
ch'io intendo tutti i pensatori,
chi si commuove aall'alba ,ride in bici
e non si cinge il corpo d'ori.

Vogliamo continare a raccontarci la storiella?
della nostra opposizione dura sol con Apicella?Dei nostri cineforum delle nostre riviste,dei nostri commentucci su cose mai viste.

Del nostro buonismo,nel dribblare i volti degli oppressi come Baggio,
del nostro non saper come si Fà "UN MAGGIO".
Nel nostro laganarsi da squallidi individui, 
burattini bugiardi,igordi,pigri!
vi prego amici nel lottare siamo assidui!
La storia si legge,ma non si fà stando sui libri!

Nessuno di noi vuol aver rimpianto alcuno,
e allora prendiamole in mano che c'è da cominciare:

UNA PENNA,

UN ARMA,

UN GRAMMOFONO

QUEL CHE PIù VI è CONGENIALE PER LOTTARE!


Ma che la conoscenza sia sempre al servizio di chi è sotto,
di chi non conosce vizio perchè non ha nemmeno un volto,
che ci sia nietzsche e ci sia giordano bruno,
ma che vi sia pane ,vernice e che chi li legge sia chi per Bill Gates non è nessuno .

Besos

lunedì 1 giugno 2009


DIOècLAnDEstiNO


l presidente del consiglio Berlusconi dice che sui barconi che in queste ore vengono respinti dalla Marina italiana «ci sono persone reclutate in maniera scientifica dalle organizzazioni criminali», dice che pochissimi di loro «hanno i requisiti per chiedere il diritto d'asilo». Si sbaglia. Su quei barconi c'è stato Tedros, 30enne eritreo laureato ed incarcerato perché non allineato al partito al potere. Proprio ieri ha avuto i documenti da rifugiato politico. C'è stato Saied, adolescente afgano fuggito dalla guerra. C'è stata Aisha scappata dall'Eritrea e picchiata e violentata per mesi in un centro di detenzione in Libia. Ecco le loro storie.


TEDROS
Tedros ha 33 anni, è laureato in scienze sociali e nel suo paese, l'Eritrea, si occupava di educazione e assistenza alle persone disabili. È arrivato in Italia l'estate scorsa, il 30 luglio 2008, a bordo di una delle carrette del mare su cui secondo Berlusconi ci sarebbe solo «gente reclutata dai criminali». Sulla sua carretta erano in ventisei, uomini, donne e un bambino. Prima l'arrivo a Lamepdusa, poi il trasferimento nel centro d'accoglienza per richiedenti asilo di Castelnuovo di Porto, alle porte di Roma. Proprio ieri il governo italiano gli ha consegnato i documenti che gli consentiranno di restare in Italia come rifugiato politico. Altri, arrivati con lui, stanno ancora attendendo di essere ascoltati dalla Commissione che esamina le richieste d'asilo. 
Non esattamente un criminale. E nemmeno un sovversivo. Tedros, Tedy per gli amici, dopo la laurea, come il governo eritreo impone, si è iscritto al partito unico, il Pfdj che sta per «People front for Democracy and Justice»: «Il nome è buono, il resto meno ed è richiesta assoluta obbedienza ai dettami del partito», racconta Tedros, che ha scontato con 8 mesi di carcere l’essere stato giudicato, con un pretesto qualsiasi, non sufficientemente allineato. Uscito da lì, è iniziata la sua fuga. Sulle orme della moglie, che, in Italia dal 2004, lo aveva preceduto nel tragitto dall’Eritrea alla Libia a Lampedusa. Ora lei fa la colf a Genova, e anche lui, con i documenti in tasca, potrà cercare lavoro. 

ABDUL
A trent’anni A.H. ha detto basta. Non voleva più né fare la guerra né subire le vessazioni e le torture del governo sudanese. Per questo è fuggito dal Darfur. Lo chiameremo Abdul, nome di fantasia, perché quel che resta della sua famiglia è rimasto in Sudan e le ritorsioni non sono finite per loro. 
Tutto comincia quando A.H. viene spedito al fronte, dove si muore e Abdul che è di una tribù ostile al governo centrale subisce continue vessazioni. Dopo tre anni in divisa chiede una licenza e lo sbattono in un carcere militare dove subisce ogni specie di tortura. Quando viene ferito non gli permettono di riabbracciare i suoi. E quando fugge a casa i militari vanno a riprenderselo. Al suo posto arrestano il padre: lo torturano e lo uccidono. E dopo di lui uccidono i suoi fratelli. Nessuno rivela dove si nasconde Abudl, che solo un anno fa, attraversando il deserto a piedi e penando per guadagnare i 1200 euro da consegnare ai trafficanti egiziani, riesce a scappare in Italia, dove chiede l’asilo. Il Centro italiano per i rifugiati, che ha raccolto la sua storia, lo assiste. E alla fine Abudl ce la fa. E se la Marina lo avesse respinto? 

SAIED
Saied è partito dall’Afghanistan che aveva 9 anni e, tappa dopo tappa, ha percorso l’intera odissea dei ragazzi afghani in fuga dalla guerra. Aveva 18 anni Saied, quando, 2 anni fa, nascosto sotto un camion proveniente dalla Grecia, ha raggiunto la destinazione finale: Italia. Anzi, più precisamente: Roma. «Dalla stazione Termini, prendere il 175, scendere alla stazione Ostiense», recitavano con precisione le istruzioni. Pakistan, Turchia, Grecia. Ogni tappa un espediente per mettere da parte i soldi, pagare i trafficanti e proseguire il viaggio fino all’approdo finale, sulle panchine di piazzale Ostiense diventata ormai l’ambasciata on the road della diaspora afghana. Da lì, il passa-parola l’ha portato fino al Centro Astalli, il centro per rifugiati gestito dai gesuiti. Ora Saied, che, rifugiato politico, ha imparato l’italiano e studia per prendere la licenza media, fa il mediatore culturale, ha uno stipendio e da un paio di mesi vive in un appartamento. 

AISHA
“Sono scappata dall'Eritrea perché non volevo essere reclutata nell'esercito e mandata nella guerra senza fine contro l'Etiopia. I miei fratelli e sorelle erano nell'esercito e non sono mai più tornati a casa. - a raccontare questa storia è una donna eritrea, la chiameremo Aisha, lei l'ha raccontata a Medici Senza Frontiere in uno dei centri di detenzione per immigrati di Malta ed è raccolta nel rapporto “Not Criminals” -. In Libia sono stata messa in un centro di detenzione dove sono stata violentata e picchiata diverse volte. Sono stata trattata come una schiava dalle guardie e dai soldati. Sono stata una schiava per due anni e non avevo possibilità di fuga – spiega Aisha –. Quando mi sono imbarcata speravo di diventare libera. Poi quando sono stata rinchiusa in un centro di detenzione a Malta ho perso la speranza e ho avuto problemi cardiaci e gastrici. I ricordi delle violenze e delle botte sono riaffiorati ed è stato difficile stare in quel posto con tante altre persone”.

MOHAMMED
«Lavoravo come camionista per un’azienda statale impegnata nella ricostruzione dell’Afghanistan. Era il 7 maggio di due anni fa, un gruppo di talebani ha rapito me e altri quattro colleghi. Tre di loro sono stati uccisi. I loro cadaveri sono stati lasciati davanti al palazzo dove lavoravamo». Mohammed, quarantenne afghano, è salvo per miracolo. «Mio zio ha pagato 10mila dollari per liberarmi». Chi ha ucciso i suoi colleghi, però, non dà garanzie per la sua vita futura. E così, alcuni mesi dopo, lui decide di lasciare per sempre il suo paese. Un viaggio lungo, fatto di stenti e paura. Prima l’Iran, poi la Turchia. «A Istanbul – ricorda – ho preso un gommone e siamo riusciti a raggiungere le acque territoriali della Grecia ma siamo stati respinti dalle autorità locali. Ci hanno fatto buttare tutti i nostri vestiti e soldi, ho perso il mio passaporto, la patente e 700 euro». Il gommone cerca di tornare indietro ma la polizia turca lo respinge. Mohammed teme di morire in mare ma alla fine è la Grecia a dare ospitalità a lui e a suoi connazionali. «Ci hanno portato in un campo dove siamo rimasti per sette giorni, dicevano che non era possibile fare richiesta di asilo, che dovevamo andare ad Atene». Ed è lì che l’uomo si dirige senza scarpe, con soli pochi indumenti addosso. Denuncia anche violenze da parte della polizia. «Per nessun motivo – rivela – mi hanno colpito sulla testa con un bastone elettrificato e sono caduto». Si risveglia con un braccio rotto in un ospedale, Mohammed. «Avevo paura di avvicinarmi alle autorità per chiedere asilo, così ho pagato un trafficante: 2500 euro per potermi nascondere dentro un tir che ha attraversato il mare in una nave». Lo sbarco a Venezia solo il 13 marzo scorso.

IKE
“Ero un insegnante di matematica – racconta ancora Ike, somalo, nel rapporto “Not Criminals” –. Tre dei miei colleghi sono stati uccisi, la mia scuola è stata chiusa e ho perso il mio lavoro. Sono scappato dalla Somalia perché la mia casa non era più sicura, una mina è esplosa vicino alla mia casa e mi ha ferito. Altrimenti sarei restato, non sarei arrivato qui”.

TITTY

Titty è giovanissima, ha 21 anni ed è un disertore. In Eritrea anche le donne sono costrette ad arruolarsi e mentre indossano la divisa spesso sono costrette a subire violenza sessuale da parte dei militari uomini. Da tutto questo Titty è fuggita, a bordo di un camion stracarico ha varcato il deserto. Eritrea, Sudan, Libia. E da lì è salpata per l’ultimo viaggio, a bordo di una delle carrette che Berlusconi vuole respingere perché piene di «gente reclutata da criminali». Titty che non si è fatta reclutare nemmeno dall’esercito eritreo a Lampedusa è sbarcata un anno fa. In questi dodici mesi ha imparato l’italiano, ha frequentato un corso per operatore socio-assistenziale, ha incontrato un ragazzo eritreo. Il governo italiano non le ha riconosciuto il diritto all’asilo ma le ha assicurato comunque una «protezione sussidiaria». 

SAMA
“Ho attraversato il deserto per sfuggire alla violenza della Somalia e ho raggiunto Tripoli quando la mia gravidanza era quasi al termine – racconta Sama anche lei in fuga dalla guerra e in cerca di un futuro per sua figlia –. Il giorno della mia partenza ho comprato un paio di forbici nuove e le ho custodite con cura. Volevo che restassero pulite. Mia figlia è nata il primo giorno di barca. Un uomo e una donna mi hanno assistita durante il parto: lui mi bloccava le braccia; lei ha tagliato il cordone ombelicale con le mie nuovissime forbici. Eravamo in 77 su quella barca, eravamo talmente schiacciati che non riuscivamo nemmeno a muoverci. I giorni successivi il mare era agitato. L’uomo e la donna si tenevano stretti a me e io stringevo forte a me mia figlia, temevo potesse finire in mare. Nei quattro giorni successivi abbiamo sofferto molto per la mancanza di cibo e acqua, anche mia figlia perché il mio seno era stato asciugato dalla paura e la fame”.

ADAM
Adam ha poco più di vent’anni. È sudanese. Come Abdul faceva il soldato, nel Darfur. Costretto ad arruolarsi, è scappato dall’esercito e dal suo paese per sottrarsi alla guerra. In Italia è arrivato cinque anni fa in gommone, gettato dagli scafisti libici sulle coste di Lampedusa. Adesso lavora all’Ikea, dove è stato assunto a tempo indeterminato, e vive a Roma, in una casa in affitto. 

SAHRA
Non ricorda il momento in cui ha deciso di scappare. Sahra, 32 anni, somala, sa però che tutto è avvenuto in nome della guerra. Aveva 16 anni. «Le ragazze venivano violentate da gruppi di dieci, venti uomini» racconta. «Per proteggermi, mio padre mi chiese di sposare un uomo più grande di me. Non ne ero innamorata, tuttavia mi sentivo più sicura, avemmo anche un figlio». Un giorno, «quel maledetto giorno», Sahra attendeva il suo secondo figlio. «Sono tornata a casa e la nostra abitazione non esisteva più» sussurra. «Sotto le macerie ho visto le teste del mio bambino, di mio padre». Forse è in quel momento che la donna decide di lasciare la Somalia. «Non avevo soldi né cibo, dormivo in strada, dovevo difendermi dagli animali, dagli uomini». Al sesto mese di gravidanza, Sahra inizia il suo lungo viaggio verso il Sudan. Per un tratto, l’aiutano alcuni giovani connazionali. «Rimasi per giorni nel deserto con una bottiglia d’acqua e alcune fette biscottate. La fame mi provocava forti dolori allo stomaco, il feto nella pancia cresceva ed io ero magra, disidratata». Partorisce per miracolo mentre attraversa altri stati africani. «Ero convinta di non riuscire a sopravvivere, toccandomi sentii il capo e i capelli della creatura. Nacque all’improvviso, ma la spinta fu tanto violenta da far sbattere la testa alla neonata. Le feci un nodo al ‘cordolino’ per non fare uscire più il sangue, proprio come mi aveva detto mia madre. Pensavo fosse morta, non piangeva né si muoveva. Dopo un po’, forse ero svenuta, la toccai. Era viva. Decisi di chiamarla Iman, in onore del nostro Dio». L’ultimo approdo è in Libia dove Sahra e la piccola Iman trovano l’aiuto anche di un medico italiano. È’ lui a pagare i mille dinari necessari per farla imbarcare per l’Italia. «Eravamo oltre cento persone – ricorda –. Ogni giorno moriva qualcuno. Sul fondo della barca c’era acqua, pensavo che non ce l’avremmo fatta ma per fortuna ci avvistò un aereo. Fummo trascinati fino a Lampedusa e una volontaria si prese cura di me e mia figlia». La piccola viene però affidata a una famiglia. Le gravi difficoltà economiche di Sahra sono un ostacolo insuperabile per i servizi sociali. Tuttora la donna la vede mezz’ora, una volta al mese. E’ proprio questa la sua nuova battaglia.

12 maggio 2009.....
 
 
 MA LE STORIE DEI MIGRANTI NON INTERESSANO LA POLITICA.
LE PERSONE AGGRAPPATE AI BARCONI NON SONO FRATELLI DA ACCOGLIERE E BAMBINI DA PROTEGGERE; NON LO SONO AFFATTO PER IL GOVERNO ITALIANO,UN GOVERNO FASCISTA XENOFOBO E CLASSISTA CHE HA DIPINTO NELLA FIGURA DELLO "SPACCIA-SCIPPA-STUPRATORE" CHE TANTO SPAVENTA LE NOSTRE FIDANZATINE LA SERA IL "MIGRANTE TIPO"...SALUTI,