mercoledì 9 dicembre 2009

Povertà, Economia,Politica e Teologie di Liberazione



Partiamo dal fatto che la povertà è figlia della civilizzazione. L’economia primitiva rappresentava infatti un modello di distribuzione e appagamento dei bisogni fondamentali dell’individuo. Nella storia della civiltà occidentale la povertà, anche se non certamente quello che noi intendiamo oggi come tale, è un fenomeno che ha cambiato aspetto, residenza e dimensione ma che ha sempre accompagnato l’uomo dalle società pre-capitalistiche sino alla nuova globalizzazione.

La concentrazione della proprietà fondiaria ad Atene nel IV secolo a.c. spinse i piccoli coltivatori a emigrare all’estero o a riversarsi nella città senza nessuna qualifica e garanzia di lavoro. Questa situazione creò un baratro fra poche persone ricche e molte povere, andando a costituire quella massa di disoccupati che avrebbe assestato colpi decisivi alla stabilità del soggetto “Città-Stato”.

Contadini poveri e schiavi popolavano la Roma sovraffollata dell’epoca imperiale. Vivevano in scarse condizioni igieniche nelle insulae e le risposte date dall’autorità al problema erano, come sempre in questi casi, di tipo repressivo insieme con incentivi alla sicurezza dei cittadini ricchi in sindrome da accerchiamento.

I contadini liberi, in epoca successiva, finirono a lavorare nelle terre dei signori creando quel sistema feudale che esprimeva una società abitata da molti servi e da pochi ricchi signori. Il Medioevo è anche il momento in cui però, sotto la spinta di San Francesco e degli ordini pauperistici in generale, per la prima volta vengono fondate le opere di misericordia. I poveri vennero messi ufficialmente sotto la responsabilità delle parrocchie grazie all’istituzionalizzazione della povertà come problema politico creata dalla promulgazione della Poor Law di Elisabetta I nel 1601.

L’urbanizzazione incessante delle città acuì sicuramente le già difficili condizioni dei poveri in Europa, esposti inoltre alle epidemie che imperversavano su tutto il continente. L’assolutismo che si sostituì al sistema feudale mantenne intatto lo schema di concentrazione di ricchezza in gruppi di pochi privilegiati incrementando povertà urbana e rurale. Nessuna di queste fasi della povertà è tuttavia paragonabile a quella che cominciò ad essere oggetto di indagine scientifica e statistica e che si sviluppò dopo il 1848. La povertà che più si avvicina a quella che noi conosciamo oggi è infatti quella che si sviluppa nel periodo post-rivoluzione industriale con l’abbattimento dell'Ancien Régìme e la vittoria della borghesia.

Le Enclosure acts in Gran Bretagna spalancarono la porta all’accumulazione capitalistica delle terre, vietandone l’uso comune. La novella povertà era legata alla sovrappopolazione e alla disoccupazione che colpiva il sottoproletariato urbano, la schiera di lavoratori di riserva figlia dello sviluppo industriale, che permetteva di tenere bassi i costi di produzioni ai capitalisti regalandoci le visioni dickensiane delle città e delle periferie.


Abbiamo tuttavia differenti definizioni del concetto di povertà. La molteplicità di accezioni attribuite nel corso degli anni a uno stesso fenomeno,ci permette di identificare meglio le caratteristiche di questa condizione. Nonostante ciò bisogna sicuramente tener presente che ogni definizione e approccio al concetto di povertà risulta assolutamente arbitrario e mutevole nel tempo e nello spazio. Basti considerare quello che per i nostri nonni era povertà e ciò che essa è per noi oggi.

Il lavoro per esempio che oggi rappresenta un facile indicatore di reddito tale da escludere l’individuo dalla condizione di povertà ha significato per molti, da Cicerone a Jeremy Bentham, un ceppo al collo. Uno strumento cioè per chi ha bisogno di procurarsi sostentamento attraverso quello che è stato definito lavoro salariato, ed entra a pieno titolo nella cerchia dei poveri, che in questo caso sono le persone che non hanno altro scopo nella vita se non quello di soddisfare i bisogni primari dimenticandosi del resto.

Le religioni attraverso i loro libri sacri hanno affrontato da sempre il tema della povertà a volte definendo e classificando, addirittura, i vari livelli di povertà come fa il Corano. C’è una caratteristica comune fra tutte le classificazioni, il fatto che è sempre considerata l’ipotesi di una povertà intesa come libera scelta individuale.

I poveri per il Cristianesimo sono il volto di Dio e il Regno dei cieli è la loro casa, tant’è che l’importanza della povertà come strumento verso un cammino di redenzione si esplicita nel voto che viene fatto a Cristo introdotto dagli ordini monastici. Votarsi alla povertà in nome di un distaccamento dai beni materiale è pratica diffusa in tutte le culture e le religioni e non solo fra le tre grandi sorelle monoteistiche. Dal Buddismo all’Induismo sino ai princìpi Taoisti e di Confucio, il grado più alto a cui tutti dovrebbero tendere è proprio il distacco dal mondo inteso come l’abbandono ed il disprezzo delle passioni e dalla proprietà.

Il carattere duraturo della povertà e il suo stratificarsi in mutevoli forme ha fatto sì che la ricerca scientifica e sociale se ne occupasse e che le agende politiche dei governi la comprendessero sempre al loro interno.

La centenaria riflessione sulla povertà ha portato alla sua classificazione in due categorie, povertà assoluta e povertà relativa.

Quando parliamo di povertà assoluta intendiamo lo stato di privazione da parte di un individuo o di una cerchia di individui di quelli che sono considerati bisogni umani fondamentali quali l’acqua, il cibo, l’igiene e un’abitazione nonché l’accesso all’istruzione e all’informazione.

Per esprimere in cifre il concetto di povertà bisogna definire un insieme di servizi e beni che soddisfi i bisogni fondamentali . Successivamente, ricorrendo ai prezzi più bassi, lo si trasforma in reddito minimo in relazione alle differenti economie di consumo legate alle dimensioni familiari.

Si crea così una soglia e si considerano poveri tutti coloro che si trovano sotto di essa.

Il secondo concetto, quello di povertà relativa, definisce un tipo di povertà da mettere in relazione con il contesto nel quale è inserita.

In altre parole il valore assoluto si rapporta al livello di vita medio, individuato di solito mediante il calcolo del consumo pro-capite o del reddito medio. Il concetto di povertà relativa non è assimilabile a quello di diseguaglianza poiché quest’ultima attraversa tutta la società senza soluzione di continuità in merito a posizioni inferiori o superiori ad una media. La povertà quale risultante di un iniqua distribuzione e di uno scarso accesso a risorse e servizi comprende in sé anche la dimensione della disuguaglianza.

La discussione etico-politica avviata con la pubblicazione di Una teoria della giustizia (John Rawls ;1971) ,ha dato il via libera ad un dibattito non ancora concluso sui temi della giustizia, della povertà e delle libertà individuali. La visione rawlesiana ci offre un esperimento mentale immaginando che un gruppo di uomini, coperti da quello che il “padre” della filosofia politica definisce come il “velo di ignoranza”, ignorino le loro caratteristiche, il loro ruolo nel mondo e le loro attitudini nel relazionarsi con l’altro e che siano posti di fronte al problema della scelta dei principi su cui fondare la vita della comunità.

Gli individui, sostiene Rawls, sarebbero obbligati, anche non tenendo conto degli altri, a scegliere criteri di equità ed uguaglianza. Gli squilibri sono ammessi nel momento in cui vanno a migliorare le condizioni dei più svantaggiati. La naturale conclusione è che a migliorare lo stato dei più poveri si migliora consequenzialmente la società.

Autori come Dahrendorf valutano il numero di chances di vita, ovvero le opportunità concesse ad ogni cittadino, quali indicatori di vera democrazia. Il testo di Dahrendorf,(libro-chiave del liberalismo politico), sfocia inevitabilmente in una durissima critica allo stato sociale, ritenuto colpevole di offrire i “risultati” e non i mezzi per realizzarsi, controllando di fatto la vita degli individui che vi abitano.


Il liberalismo estremo del “titolo valido” che contraddistingue il pensiero di Robert Nozick porta l’autore ancora oltre, spingendolo a dichiarare necessaria la difesa dei diritti di una persona, senza tenere conto delle conseguenze che ne derivano. L’uguaglianza paradossalmente soffocherebbe i processi di miglioramento individuale possibili soltanto in presenza di una condizione di disparità ed annullerebbe l’ auto-stima. Lo stato “minimo” è quello che può essere più facilmente accettato. Un altro tipo di stato, interventista e intrusivo, lederebbe la libertà dell’individuo invece che proteggerla.

Amartya Sen rielabora il concetto di povertà assoluta figurando un paniere di beni e di servizi minimi e valutando il grado di povertà secondo il cosiddetto “diritto di comandare cibo”, in base cioè ai diritti che un individuo o un gruppo può esercitare legalmente per avvalersi della facoltà di accedere e controllare i beni ed i servizi del “paniere”. L’elemento legale di questa riflessione è basilare, sottolineando Sen la differenza sostanziale fra la “disponibilità di cibo” e “l’attribuzione”dello stesso.

Il carattere rivoluzionario dello studio di Sen sta nel guardare alla povertà non più come a una privazione di beni, ma come un fenomeno analizzabile in termini di “capacità”. Bisogna ragionare sulla povertà in termini di mancanza nel realizzare alcune “funzioni fondamentali”. Così facendo si rimette in gioco l’importanza dei beni. In una ricca città occidentale esistono migliaia di senza tetto non per mancanza di abitazioni ma semplicemente perché non hanno l’attribuzione per arrivare al bene-casa. L’accessibilità ai beni ci porta ad una riflessione più ampia sui diritti umani ed il concetto di povertà si estende verso quello di democrazia.

Il sistema dello Stato Sociale europeo invece che migliorare è andato completamente in crisi. Attaccato al cuore dalle politiche neo-liberiste e di deregolamentazione inaugurate da Ronald Reagan e Margareth Tatcher nei primi anni 80’, è stato travolto definitivamente dalla caduta del blocco sovietico che ha sancito la vittoria del modello “Washington Consensus”.

Visioni diverse della società differenziano gli approcci alla povertà.

Paradigmi di due approcci differenti possono essere rappresentati da Inghilterra da una parte e Francia e Italia dall’altra.

La tradizione inglese guarda all’individuo come ad un soggetto che liberamente decide di integrarsi nella società,. Il rapporto fra individuo e società è quindi una scelta del primo soggetto. Garantendo condizioni paritarie a tutti, la giustizia sociale non costituisce un problema nell’agenda politica, visto che non è contemplata l’ipotesi di sfruttamento essendo garantita la “libera scelta”.

I poveri sono quindi coloro che per incapacità fisiche, mentali o a causa delle politiche assistenzialiste dello stato da cui si trovano a dipendere si auto-escludono dalla società.

La tradizione solidarista di Italia e Francia, permeata di marxismo e cristianesimo, presenta invece l’idea di un ordine sociale come risultato di legami comuni e valori che permettono alle persone di vivere insieme: la coscienza collettiva. Lo Stato deve preservare questo “patto” collettivo ed inserirsi nel buco lasciato fra le responsabilità individuali e quelle sociali, terreno dove c’è il rischio di un’esclusione sociale.

La dicotomia anglo-latina è stata superata internamente all’Unione Europea (grazie anche al ruolo-guida francese nel processo di unificazione), dove ha prevalso il secondo approccio.

La povertà oggi non è più quindi rintracciabile al di sotto di una soglia prefissata, poiché molte persone possono cadervi indipendentemente dalla condizione in cui si trovano a causa di malattia, perdita di status sociale o ristrutturazione aziendale. I nuovi poveri non sono più i disoccupati che permettevano ai capitalisti di tenere bassi i salari per i restanti lavoratori. Il numero impressionante di disoccupati non giustifica più la teoria dei lavoratori di riserva di Marx. I nuovi poveri non sono necessari al processo produttivo. Le vecchie battaglie “terzomondiste” per la difesa dei paesi poveri dalle multinazionali si vanno trasformando in richiesta di investimenti da parte di Nazioni Unite e governi. I nuovi poveri infatti non sono sfruttati all’interno di un processo produttivo in cui erano comunque inseriti ma ne sono completamente tagliati fuori e rendono in tal modo esplicita la sostituzione del concetto di povertà con quello di “esclusione sociale”.

Gli studiosi hanno accertato che l’80% della ricchezza mondiale è in mano al 20% della popolazione. Un’analisi molto efficace per aprire la porta a nuove riflessioni e soluzioni è considerare anche il rovescio della medaglia. Il mondo per funzionare finora ha avuto bisogno solo del 20% della sua popolazione con funzioni di guida.



La povertà come “peccato sociale”

breve storia di una Teologia di Liberazione.


E’ innegabile che la creatività dei poveri sia infinita e sorprendente ed è forse anche per questo che filosofi, economisti, scrittori, rivoluzionari e teologi si sono “innamorati” dei poveri e gli hanno dedicato libri, studi e a volte persino la propria vita. A pensarci bene le società povere sono state e continuano ad essere un fantastico laboratorio a cielo aperto nel quale studiare e sperimentare e dove non casualmente si sono sviluppate alcune fra le più rivoluzionarie idee in assoluto in ordine all’economia, alla politica, alla religione e alla letteratura.

Non intendo in nessun modo in questo breve testo attribuire un carattere eugenetico positivo alla povertà dipingendo un grande affresco delle esperienze solidariste sparse in giro per il mondo, bensì trattare in modo sintetico di una singolare esperienza che all’interno della Chiesa Cattolica ha proposto i poveri come punto centrale e focale del proprio vivere il messaggio evangelico e soffermarmi sulla potenziale forza dei poveri quale vettore di cambiamento di un più ampio panorama sociale.

Il distacco dai beni materiali e lo spogliarsi delle ricchezze come condizione necessaria per avvicinarsi realmente a Dio hanno rappresentato un denominatore comune per tutte le religioni. Meglio, il bisogno di abbandono delle ricchezze ha avuto apostoli all’interno di tutte le religioni, senza mai prevalere come corrente maggioritaria all’interno delle stesse.

“Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio”

, afferma nel Vangelo Gesù di Nazaret, uno dei primi a proporre i poveri come protagonisti e candidarli a vincitori della grande partita della vita. La frase del discorso delle beatitudini scoppia come una granata e il suo eco risuona ancora oggi, anche se in tanti tentano di coprirlo, e nemmeno troppo lontano dai viali illuminati a giorno delle città dell’emisfero-boreale. Tuttavia oltre alle grandi ricompense promesse dopo la morte c’è chi ha voluto leggere il messaggio evangelico e la figura di Cristo come vero incentivo ai poveri per lottare e guadagnarsi una vita dignitosa sulla terra oltre che un regno dei cieli nell’aldilà.

La discussione aperta negli anni ’70 in Sud America dopo la pubblicazione di “Història ,Polìtica y Salvaciòn de una Teologìa de Liberaciòn” di Gustavo Gutierrez ha aperto una riflessione che ha scosso profondamente la Chiesa Cattolica e coinvolto soprattutto in America Latina un numero sempre crescente di vescovi, teologi e sacerdoti.

La Teologia della Liberazione nasce non a caso in quegli anni e in America Latina. Fra gli anni ’50 e ’60 i governi populisti di personaggi come il brasiliano Vargas l’argentino Peron, il messicano Cardenas e il nicaraguense Somoza - solo per citare i più noti - avevano perseguito uno sviluppo industriale sfrenato, finanziato quasi totalmente con capitali esteri, portando grandissimi benefici alla nascente borghesia industriale e marginalizzando completamente il resto della popolazione,in maggioranza contadini, che cominciavano a concentrarsi nelle periferie delle megalopoli per vivere in baracche e costruire quelle che ora noi conosciamo come favelas.

La rivoluzione cubana del ’59 significò per il Sud America un primo e vittorioso tentativo di smarcarsi dalla dipendenza economica delle potenze estere e in particolare degli Stati Uniti, nazione da sempre egemone nel continente definito da Monroe “il nostro giardino di casa”.

Movimenti rivoluzionari che si richiamavano ai padri della decolonizzazione - Josè Martì, Simon Bolivar, Emiliano Zapata - cominciarono a svilupparsi in tutto i continente mentre cresceva l’appoggio a questi gruppi da parte delle comunità rurali, degli studenti, degli operai. La Chiesa non poteva stare alla finestra in questo processo, vi partecipò dividendosi al suo interno fra diverse posizioni. Cardinali, vescovi e alti prelati nella maggior parte dei casi alimentarono il consenso verso regimi fascisti e torturatori come quello di Pinochet in Cile; altri, come il Teologo peruviano Gustavo Gutierrez con il suo libro sulla Teologia della Liberazione, cominciarono a promuovere una nuova lettura del Cristianesimo. La Chiesa latino americana, per la sua storia e il suo potere, è in ogni caso parte della vita se non spirituale almeno economica e politica delle popolazioni del continente. La lettura di Gutierrez è inserita nel contesto sudamericano in un’ottica di “liberazione” come vedremo.

Il crollo dei regimi populisti e conseguentemente del modello di sviluppo da essi prospettato ha offerto il miglior pretesto possibile per formalizzare le pratiche legate a quella che da ora in poi abbreviando chiamerò TdL. Il matrimonio fra le istanze di matrice marxista-leninista dei movimenti e la componente più progressista della Chiesa portò a definire un comune obiettivo: la liberazione sociale e politica nel nome di una futura e possibile liberazione integrale dell’uomo.

La summa di tutti i testi e delle relazioni presentate in numerosissime conferenze programmatiche ci portano ad estrapolare alcune fra le più rilevanti conclusioni della TdL:

•La situazione latino-americana, che si può facilmente estendere a tutto il Terzo Mondo, si scontra con il progetto di Dio riguardo ai poveri e per questo la povertà diviene un “peccato sociale”.

La povertà non è un fattore endemico e vi sono persecutori da punire e da cui liberarsi oltre che vittime che chiedono giustizia .

•La liberazione e la salvezza dell’uomo includono anche la dimensione politica, economica e sociale dell’individuo.

***

Le tesi che scaturiscono da questa lingua e discussa riflessione teologica hanno portato coloro che vi hanno contribuito a formulare una sorta di “agenda politica” degli impegni da assumersi nella pratica quotidiana:

•Bisogna porsi al fianco dei poveri che rappresentano “le membra sofferenti del corpo crocifisso di Cristo” e prendere consapevolezza della differenza fra le società opulente e quelle povere.

•Lottare pacificamente per conquistare e/o mantenere la democrazia individuando i veri nemici del popolo per realizzare un cambiamento sociale ed economico.

•La logica capitalistica della speculazione e del profitto dev’essere combattuta dallo spirito creativo e solidale dell’uomo.

•E’ necessario lottare per creare un “uomo nuovo”, un uomo “liberato”.

•La dottrina evangelica dev’essere liberamente accettata dall’individuo soltanto dopo che la chiesa abbia provveduto a creare presupposti per una vita dignitosa.

L’elezione di Giovanni Paolo II ridimensionò notevolmente il dinamismo e la forza della TdL che stava ricevendo importanti contributi da parte di vescovi e teologi nonché guadagnando una popolarità diffusa. Il pontefice nel suo intervento durante il primo viaggio pastorale in Messico dichiarò l’estraneità della Chiesa di Roma alla visione di un “Cristo rivoluzionario” e richiese alla Congregazione per la dottrina della Fede uno studio sulla Tdl. La Congregazione ( allora presieduta da un giovane Joseph Ratzinger) condannò duramente con due studi

le tesi di Gutierrez e compagni, osteggiando in modo particolare i richiami della TdL a postulati marxisti e ad altre pratiche politiche. Leonard Boff, teologo brasiliano di spicco della TdL, fu condannato al silenzio ossequioso e successivamente al veto imposto da Giovanni Paolo II a partecipare al Summit della Terra decise di abbandonare i voti.

Oscar Romero, vescovo di San Salvador e sostenitore della TdL, chiese invano al Vaticano un riconoscimento ufficiale per tutti quei sacerdoti e vescovi che in Latino-America lottavano pacificamente e con la forza del messaggio evangelico al fine di migliorare la società in cui vivevano. Un riconoscimento quello richiesto da Romero che non arrivò mai. Arrivarono invece due pallottole che lo passarono da parte a parte mentre celebrava la S. Messa nella cattedrale di San Salvador.

Sostanzialmente possiamo concludere osservando che la TdL è stata sconfitta nella sua donchisciottesca battaglia bifronte: una con la Chiesa dei palazzi e una con lo sfruttamento dei latifondisti prima e delle multinazionali poi.

Tuttavia le istanze di cui si è fatta portavoce camminano ancora attraverso il continente andino.

Camminano attraverso la testimonianza di uomini che hanno offerto la loro vita nel nome di un impegno sociale come unica soluzione per la salvezza eterna. Camminano a testa alta fra i Sem Terra brasiliani, risuonano nei palazzi dai pavimenti di marmo dei vecchi dittatori dove stanno cominciando ad entrare presidenti Indios, presidenti operai e presidenti donne.

Risuonano nei cuori di chi, ancora prima di alzare una bandiera con l'effigie del proprio Dio e rinchiudersi nel proprio Io, crede nell’Uomo.

Un uomo da liberare.






•Bibliografia: Gustavo Gutierrez, Historìa,Politica y Salvaciòn de una Teologìa de Liberaciòn” 1970

•Congregazione per la Dottrina della Fede, Libertatis Nuntius” 1984

•Leonard Boff ,”Higreja carisma e poder” 1981

•Movimento Francescano, ”Fonti Francescane” 1977

Luca evangelista Il Vangelo secondo Luca

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